Rosario Livatino è uno di quei giudici che ha pagato con la vita il suo impegno contro la malavita organizzata. Ucciso il 21 settembre 1990, a soli 37 anni, dalla Stidda, la mafia di Ragusa.
E’ una di quelle figure che ci parlano di impegno, di ideali, di scelte, e per questo è importante ricordarlo e “raccontarlo”.
Per questo EquiLibri, in collaborazione con altre realtà del territorio, ha organizzato la presentazione del libro di Antonio Mitra.
Pubblichiamo qui sotto la prefazione del libro scritta da don Luigi Ciotti
Questo libro è un bellissimo omaggio alla vita di Rosario Livatino, e un ritratto fedele, vivido, accurato della sua straordinaria figura. Come ogni ritratto, accosta luci, ombre e colore. La luce in questo caso è la componente principale, perché Rosario era una persona luminosa sotto ogni aspetto. Troviamo dunque la luce della sua fede autentica, del suo pensiero etico e giuridico cristallino, delle sue scelte sempre trasparenti.
Nell’intervento su “Fede e Diritto” scritto in occasione di una delle sue rare uscite pubbliche, Livatino afferma: “Il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta”. La luce dunque come aspirazione, la verità come meta che non è alla portata dell’uomo, ma pure deve guidarlo nel suo cammino, tanto più quando quel cammino comporta responsabilità importanti nei confronti degli altri. Quelle responsabilità Rosario le sente fortemente su di sé, e lo dimostra attraverso gesti discreti ma esemplari, come recarsi personalmente a consegnare il mandato di scarcerazione per un detenuto a fine pena, affinché non trascorra in cella neanche un minuto in più di quanto stabilito.
Consapevole del rapporto cruciale, eppure mai scontato, che lega Legge e Giustizia – è sua la scelta delle maiuscole – il giovane magistrato non si accontenta, nell’esercizio del proprio mandato, di rispettare gli aspetti formali, ma sceglie di guardare sempre alla sostanza: alle differenze fra le situazioni concrete, alla dignità delle singole persone coinvolte. Sceglie insomma la strada difficile del dubbio, della domanda, dell’interrogarsi continuamente e severamente sull’adeguatezza del proprio operato, affidandosi alle preziose bussole che la vita gli ha offerto: il Vangelo e il Codice – emanazione della Costituzione.
Una domanda sarà anche l’ultima frase pronunciata da Livatino. “Che vi ho fatto, picciotti?”, chiederà sgomento ai suoi assassini, come testimoniato da uno di loro dopo il pentimento. “Il Signore ci ha lasciato come luce e sale della terra, e la luce dà fastidio a chi vuole vivere nelle tenebre”, è la risposta che offre oggi don Carmelo, il giovanissimo parroco che si trovò per caso a passare sul luogo dell’omicidio e ad imporre il supremo sacramento al magistrato.
Ed eccole dunque le ombre, le tenebre che il bravo Toni Mira è costretto a inserire nel racconto di questa vita così esemplare. Sono le tenebre della prepotenza e violenza mafiosa. Le tenebre dell’interesse che calpesta il diritto, dell’inganno che oscura la verità. “Vedo scuro nel mio futuro” scriveva Livatino nel suo diario, quando i pericoli a cui andava incontro cominciavano a diventare evidenti. La sua fedeltà alle istituzioni, l’efficacia nel gestire le inchieste di mafia, la sua inavvicinabilità e incorruttibilità – l’indipendenza era fra le virtù che aveva maggiormente a cuore – lo avevano reso particolarmente scomodo per chi gestiva i lucrosi affari criminali nella zona. Gli spareranno in bocca, per metterlo simbolicamente a tacere. Ma il sacrificio finale renderà invece ancora più eloquente il messaggio della sua vita.
Ed eccoci al colore. Il rosso dell’inchiostro col quale Rosario annota sul diario la data del suo ingresso in magistratura: una meta importante, sognata e raggiunta. Il rosso anche del sangue che alla fine verserà proprio per la fedeltà a quella professione vissuta come una vera e propria vocazione, un servizio e mai un esercizio di potere.
Il verde delle campagne intorno alla sua città. Dal libro scopriamo che Livatino si occupava di ecoreati ben prima che questi venissero riconosciuti come tali dall’ordinamento. Che aveva un occhio attento alla natura, nella quale vedeva l’armonia del creato e l’amore del Creatore. Non solo. È stato anche fra i primi magistrati in Italia a dare attuazione alle norme sul sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Capiva che da lì sarebbe passato l’indebolimento delle cosche, la loro perdita di controllo e anche di prestigio sociale sui territori. Oggi proprio su quelle terre, grazie alla legge 109/96 nata come potenziamento della Rognoni-La Torre, opera una cooperativa di giovani che porta il nome di Rosario Livatino. Anch’essa frutto visibile e fecondo della lungimiranza di quel giovane magistrato.
Il bianco della beatificazione. Oggi la Chiesa ci dice che Livatino non è stato solo un uomo dalle fulgide virtù cristiane, un figlio e un amico affettuoso e un eccellente magistrato, ma qualcuno talmente vicino a Dio da morire per la sua fede. Lo fa infatti beato “in odium fidei”, ossia perché ritiene che il suo omicidio abbia avuto ragione nella purezza e nell’intransigenza della fede, vista dai criminali come l’ostacolo insormontabile a corromperlo o farlo desistere dalla sua ricerca di verità e giustizia.
Rosario Livatino è dunque ufficialmente beato, ma queste pagine preziose, appassionate e documentate di Toni Mira non vogliono certo restituircelo come un “santino”, bensì come un uomo che ancora, nell’esempio e nella memoria, vive. Vive nelle speranze di fedeli che a lui si affidano. Vive nel ricordo di quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo, e che in questo libro lo raccontano anche nei suoi lati più teneri e privati. Vive nell’impegno dei giovani che coltivano i terreni confiscati, e nei prodotti che hanno per marchio il suo nome. Vive nell’ammirazione di tanti magistrati, giuristi e studenti che a lui si ispirano nel coltivare l’amore per il diritto e soprattutto per i diritti di ogni persona. Vive nell’impegno di chiunque si spenda contro ogni forma di prepotenza, violenza e sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
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