Energie di cambiamento
In questi giorni l’India sta affrontando la più grave ondata di calore da oltre un secolo, con temperature medie superiori ai 35 gradi e punte che arrivano fino a 50.
Le previsioni sono disastrose per giugno che in quel paese è di solito il mese più caldo. Poi dovrebbero arrivare i monsoni, che potrebbero portare sollievo dal punto di vista delle temperature, ma che in queste condizioni rischiano di provocare eventi estremi.
Ovviamente questo calore ha provocato già diverse vittime, soprattutto tra gli anziani e persone che lavorano all’aperto. Frequenti sono i malori.
La necessità di utilizzare i condizionatori ha portato i consumi energetici oltre la disponibilità della rete elettrica indiana, provocando diversi black out.
Intanto, lo scioglimento del ghiacciaio Shishper, nella regione pakistana di Hunza, ha prodotto una piena tale da provocare la distruzione di ponti e centrali elettriche lungo il percorso.
Chi segue le vicende ambientali sa che lo scorso 13 novembre 2021, in occasione della conferenza sul clima di Glasgow, dopo due settimane di negoziati, è stata proprio l’India a compromettere l’esito finale degli accordi chiedendo di inserire la dicitura “riduzione” al posto di “uscita” rispetto alla volontà internazionale di cessare l’uso del carbone per la produzione di energia.
La richiesta indiana era motivata dall’esigenza di avere più tempo a disposizione per mettere in atto la transizione di un sistema fortemente incentrato sul carbone. Il problema è che rispetto alla crisi climatica, di tempo non ce n’è più.
Di fronte a questa vicenda l’atteggiamento più sciocco che si possa avere è pensare che “chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Prima di tutto perché, come sempre avviene, a pagare le conseguenze più tragiche dell’ondata di caldo in India non sono di certo né i politici che hanno chiesto tempo, né le lobby economiche che li hanno spinti a farlo. Sono invece i più poveri, i meno attrezzati, quelli che il condizionatore non possono accenderlo perché non ce l’hanno.
Ma anche perché, come avviene per gran parte delle problematiche ambientali, le conseguenze non conoscono frontiere, e alla fine si riversano su scala globale.
Il caldo indiano, alla fine, non è che un’ulteriore dimostrazione (semmai ce ne fosse bisogno), dell’urgenza che la crisi climatica ci impone. E anche del fatto che la risposta alla crisi non può essere che globale e collettiva. Non si salva il mondo da soli, e non si salva nemmeno aspettando che altri lo facciano. Il mondo si salva con una risposta generale, unendo le forse e prendendo in mano il nostro destino. Ecco perché, nel nostro piccolo, come Contatto continuiamo a proporre una mobilitazione collettiva per cambiare la storia. Se vuoi farne parte, compila il modulo qui sotto.